Tutto prevedibile: corpi perfetti, oleati, mani che spingono teste, masturbazione compulsiva, fighe depilate, sperma, cazzi duri, uomini che penetrano donne con le dita, urletti ridicoli, violenza, noia, sperma. La pornografia veicola un immaginario di relazioni e pratiche di subordinazione e inferiorizzazione che limita le nostre fantasie, le inquina. Se la “pecorina” non si chiamasse così, o non fosse rappresentata così, non potrebbe diventare la nostra posizione preferita? Se lo squirting non spopolasse solo su red-tube, non lo proveremmo tutte?
Questo lavoro è iniziato nella primavera del 2012.
Ci incontravamo per vedere insieme video porno e postporno, a casa di una di noi. Sceglievamo i più cliccati su You Porn oppure cortometraggi dai siti delle pornoartiste e terroriste. Abbiamo anche visto Lady M, Saffo e Priapo, Suor Vaseline e Le trou.
Ogni tanto qualcuna proponeva: leggiamo letteratura erotica, studiamo che cosa è il porno. Ci rendevamo conto che non ci interessava. Guardavamo i video, poi un giro di parola su che ce ne sembrava. Percezioni e sensazioni immediate, cercando di dire alle altre cosa ci avevamo visto: esercizi di autocoscienza della vista.
Ci chiedevamo quanto l’immaginario pornografico interiorizzato ci impedisse di vivere pienamente le nostre sessualità. Forse sposavamo una visione repressiva del pornopotere.
Quelle immagini erano spettri, un fantasma. Non saremmo riuscite a liberarcene neanche se non ne fossimo state fruitrici: non lo erano forse le persone con cui ci relazioniamo, i nostri compagni, fratelli, morose, padri, amiche? Poi, non era solo questione di red-tube. Era la mercificazione del corpo femminile tout court, la televisione, la pubblicità, i giornali, i cartelloni per strada, il porno soft. Erano i nostri ricordi: tutte le visioni eteronormate che avevano puntellato la pedagogia sessuale della nostra generazione. Nate negli anni Ottanta, siamo cresciute ispirandoci al modello di femminilità vogliosa, ammiccante e disinibita, innocente e vanitosa della cultura visuale italiana dell’epoca delle nostre adolescenze. Non si coglie il nostro sentire fantasmatico rispetto alla pornografia se non si contestualizza nelle storie delle nostre vite in Italia. Tanto più che il 2012 è l’anno in cui gli scandali sessuopolitici di Berlusconi riempiono i discorsi istituzionali, mediatici, quotidiani. La nostra educazione alla femminilità ha coinciso con gli ultimi venti anni di politica italiana, in cortocircuito con il mondo dello spettacolo e dei media, che ha fatto dello scambio sessuo-economico uno dei suoi fondamenti. Le donne complici di questo tipo di accordi erano a modo loro femministe che dispongono del loro corpo in modo consapevole? E se non si volesse essere complici di questo potere statale e del suo regime visuale? Quali pratiche postporno di visibilità dei corpi e delle sessualità potevano essere efficaci e realmente alternative? Era necessaria una strategia specifica per lottare contro le contingenze contestuali e le specificità culturali.
Queste domande hanno aperto altri fronti di riflessione.
Perché se la pornografia, nelle sue infinite forme, aveva su di noi degli effetti (auto)censuranti che ci permettevano di decostruire una certa cultura delle immagini e di contrastare il regime, dall’altro lato era evidente che le nostre sessualità avevano seguito dei percorsi di libertà.
Non avevamo, cioè, rinunciato a vivere i nostri porno. Se accostiamo una scena di un pompino porno e quello di una delle nostre vite ci rendiamo conto che sono identiche, ma in una scriviamo sotto “Porno” e in un’altra mettiamo “Ha fatto autocoscienza”.
A fare la differenza era la consapevolezza con cui i gesti erano agiti, le modalità di negoziazione dei nostri piaceri all’interno delle relazioni. Ma i gesti, alcuni, erano proprio gli stessi. Voleva dire che, guardando i porno, in qualche modo riconoscevamo parti di noi, delle nostre storie, delle nostre fantasie.
Avevamo un modo particolare di dircelo:
M: c’è un lato che mi tocca dei porno, ora guardandolo insieme a voi, mi sono bagnata però poi quello che capita è che se il tipo mi prende e mi sbatte sul tavolo, ed è un tipo a cui voglio bene, mi ammoscio. Con un occhio esterno mentre guardo mi eccita, ma se vivo il momento e sono partecipe non mi eccita.
S: c’erano parti di questi video che mi piacevano un poco di più, e avevo delle reazioni di eccitazione, all’inizio mi dicevo: ma con 'sto schifo, mi devo eccitare?
T: in generale anche se non mi piace, la pornografia mi eccita.
V: anche se in modo che non ci piace, hanno rappresentato delle cose che effettivamente tutti noi desideriamo.
D: io mi sono accorta che mi davano sensazioni contraddittorie, non riuscivo ad esplicitarle perché mi davano reazioni completamente opposte, la stessa cosa poteva eccitarmi e allo stesso tempo infastidirmi. Potremmo fare un elenco delle sensazioni contraddittorie.
Era tutto un ‘ma’, ‘anche se’. La ricorrenza delle congiunzioni avversative ha iniziato a farci pensare che il sistema pornografico ci mettesse in contraddizione, che mirasse proprio a questo. Riuscivamo a vivere alcune pratiche sessuali in modo libero, eppure non smettere di percepire e incarnare i limiti del quadro in cui vivevamo. La pornografia non punta tanto alla creazione di un immaginario di subordinazione, quanto a determinare, in soggetti che si autorappresentano come donne, degli stati di contraddizione, dei piaceri che ci mettono a disagio. Come mai? Perché alcune cose che vediamo ci corrispondevano, ma... prevaleva sempre un ‘ma’ che era tutto quello che delle nostre vite non riuscivamo a vederci.
Scartando l’ipotesi che le cause di questa contraddizione fossero da ricercare in un certo puritanesimo o nell’autocensura femminista che avevamo già problematizzato, ci siamo rese conto che l’ipotesi repressiva coabitava da sempre con un altro punto di vista. Che si può riassumere così: posto che ci piaceva essere porche a modo nostro, il patriarcato aveva disposto per noi dei copioni da cui potevamo imparare ad essere porche e soprattutto i modi per esserlo. Disinibitevi, era il leitmotiv di tutta una vita. La pornografia era l’imposizione di alcune forme di godimento.
Fino a quando abbiamo capito che affermare e credere nella contraddizione, questo cortocircuito tra credo femminista da una parte e l’industria audiovisiva pornografica patriarcale contemporanea, giocava a nostro sfavore. Dovevamo spogliarci di questa contraddizione.
E ci siamo rese conto che stavamo scambiando la pornografia, e i suoi effetti, per tutte le rappresentazioni delle sessualità che vedevamo. E sembrava vedessimo solo quelle, ovunque.
In verità, tra l’altro, ad un certo punto neanche più sapevamo bene cosa fosse. Per una, la scena di un uomo che penetra una donna con le dita era altamente pornografica, ovvero la riportava ad un triste ricordo di un tipo che le aveva messo due dita in vagina improvvisamente quando aveva 15anni. Per un’altra era il piacere delle dita polimorfiche della sua amante.
Si spalancava lo spettro delle percezioni, dove i gesti sono legati alle storie e alle memorie corporee. Più ci riflettevamo, più ci allontanavamo dallo stereotipo della pornografia da cui eravamo partite. Era diventato un oggetto bagnato, scivoloso.
Questa confusione ha giocato, invece, a nostro favore. Perché abbiamo sentito il bisogno, ad un certo punto, di vederci più chiaro.
In tutta questa storia, avevamo dimenticato i nostri occhi.
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