Durante una riunione, L. propose di fare una sorta di esercizio: il secondo esercizio di autocoscienza della vista. Nel tempo che ci separava da una riunione all'altra avremmo dovuto prestare attenzione a cosa vedevamo. Quali immagini e visioni, riguardanti la sessualità, ricorrevano nelle nostre vite? In sintesi la domanda era: cosa vedo?
È la vista il senso che la pornografia usa nel precipuo tentativo di eccitare/ci. Ma cosa sarebbe accaduto se, al posto di mettere il focus sull'oggetto pornografia, lo avessimo spostato sui nostri occhi? Proprio sul senso privilegiato dalla pornografia, ma che, nonostante tutto risulta essere uno dei sensi con cui percepivamo il mondo, noi stesse e le altre?
Questo permise un dislocarsi dalla convinzione che, in un modo o nell'altro, il potere ci aveva già prese o era lì lì per prenderci. Un dislocarsi nel senso di collocarsi in qualche luogo, di essere per l'appunto situate. Ci collocavamo letteralmente dal nostro punto di vista.
Facemmo così in modo che qualcosa di visivo potesse accadere nelle nostre vite. In una successiva rielaborazione rimodulammo l'esercizio chiedendoci come e se le immagini evocate durante le riunioni circolavano nelle nostre vite.
Se davvero eravamo contaminate, cosa sarebbe accaduto se le immagini a circolare fossero state quelle trovate da noi e non quelle etero-proposte? E ancora: le nostre visioni di che genere sarebbero state? In quale rapporto sarebbero state con quelle mainstream?
I nostri primi racconti, però, avevano spesso incipit di difficoltà: “Ho fatto molta fatica a fare questo compito” oppure “Ma che problema ho io coi miei sensi?”
Sembrava che in realtà noi non vedessimo nulla, o nulla di che.
Di più: si metteva in dubbio la possibilità stessa di una rappresentazione della nostra sessualità: di tutta prima ci sembrava che la vista non fosse il nostro canale principe. Riecheggiavano in noi diversi discorsi femministi che avevano elaborato metafore dell'occhio come metafora del potere e avevano privilegiato il tatto come senso “tipicamente femminile”.
In verità prima ancora che rappresentabile ci domandavamo se il nostro sesso fosse realmente visibile. Noi riuscivamo a vederlo? Vedevamo quello delle altre? O lo vivevamo come qualcosa di invisibile, di realmente nascosto?
Ha avuto un peso nella nostra storia personale il fatto che il nostro organo sessuale sia stato ritenuto invisibile o non sia stato mai nominato da nostra madre. Mi ha fatto molto pensare anche il fatto che io ho vissuto il mio organo sessuale come qualcosa di realmente invisibile, anche in relazione alla masturbazione. È una sessualità che c'è, ma non è nominata, non è detta. C'è il fantasma del vergognarsi di esprimere un qualche desiderio.
Cosa intendevamo quindi quando dicevamo “vedere il sesso femminile”?
In alcune riunioni si evocava il bisogno di una vista altra: “Si dice che il sesso femminile è invisibile perché è tutto interno. Io invece dicevo: no, io lo vedo, ma in questo vedere c'è dentro qualcosa che io non riesco bene a comunicare, va oltre il semplice significato di vedere. Un vedere che è complesso, ma anche estremamente semplice: si tratta di vedere, come posso vedere un albero.”
Ero nel bus per Parigi, sono sedute accanto a me due bambine.
Una di loro fa finta che sia caduto qualcosa, l'altra non ci crede.
“Non lo vedi perché è trasparente”
“Ma allora non puoi vederlo neanche tu!”
“Io lo vedo perché i miei occhi sono trasparenti”. L’ho trovato geniale.
Gli occhi trasparenti sono poi diventati un modo per nominare uno stare al gioco di saper vedere qualcosa di non scontato o meglio qualcosa che la nostra cultura non è mai stata in grado di vedere. Ma cosa significa, in questo caso, vedere? E sotto questa luce come si ridisegna la domanda sul vedere il nostro sesso che noi, forse per senso di appartenenza, chiamavamo femminile?
Gli occhi trasparenti implicano un altrove rispetto alla vista oggettiva oltre che un “riappropriarsi del senso della vista”. Alcune raccontavano: “C'è uno strato di semplicità che non ho mai considerato, come se mi fossi complicata le cose da sola. Gli occhi trasparenti è come tornare a qualcosa di semplice, uno stadio non più facile ma più semplice.”
In che direzione andava quindi questo stadio semplice e complesso al contempo? Ricorrevano, infatti, le espressioni “vedo, ma va oltre la semplice vista”. G. raccontava che prima dell'esperienza con Benazir la vista era nella sua classifica dei sensi quello più in basso in quanto a godimento: “La vista fa parte del sesso, ma in realtà ho sempre sottovalutato che la mia eccitazione passasse attraverso la vista. Non consideravo che guardare fosse già una fonte di piacere fisico. Ecco, era forse questo lo scarto: il fatto che io non considerassi la vista come fisica, come parte del corpo materiale.”
Una vista che è insieme materiale e visionaria. Materiale perché “provoca in noi delle reazioni fisiche, ci eccita, ci smuove il corpo, ci fa stare bene”, perché ha la fisicità delle sensazioni che passano attraverso i nostri corpi. Visionaria perché comprende visioni, allucinazioni, follie visive, fantasie, tutto quello che si vede ad occhi chiusi.
In ogni caso, la domanda – cosa significa “vedere il sesso femminile” – era forse di per sé problematica. Tanto che S. inizia a chiedere a tutte: “Ho notato anche che ognuna di noi ha un'idea diversa di sesso. Dove inizia e dove finisce per voi il sesso?”
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