Gioiosa Marea





(Gioiosa Marea, 8.34 min, video, 2012)


Ero nel bus per Parigi, sono sedute accanto a me due bambine. Le avevo notate anche prima, perché nel salire in fila si scambiavano dei bacini sul naso e sulla bocca. Erano deliziose, piccoline, tutte biondine. Avranno avuto quattro o cinque anni, forse cinque e sei. Sono vestite da bambine, mollettine, abitini con ricami, farfalle e cuoricini dappertutto. Scherzano e ridono, si prendono in giro: sono un piacere. Esiste l'espressione “fare venire il cuore”? In siciliano si dice nel senso di “fanno stare bene”. Una di loro fa finta che sia caduto qualcosa, l'altra non ci crede. “Sì, non lo vedi perché è trasparente”
“Ma allora non puoi vederlo neanche tu!”
“Io lo vedo perché i miei occhi sono trasparenti”.
L'ho trovato geniale. Parlando si toccavano molto, hanno delle mutandine deliziose. Sì, perché avevano questo modo di giocare, come mi ricordo facevo da piccola con mia sorella o con le bambine. Toccarsi qua, sul pube, per farsi il solletico, o sotto le ascelle. Una di queste bambine aveva delle mutandine troppo belle, tutte bianche con un cuoricino al centro coi brillantini. Si possono vedere questi sessi così senza peli, così piccoli... mi hanno fatto tanta tenerezza e ho pensato che a me piacerebbe averne uno così. Forse io ancora immagino il mio corpo un po' come un corpo da bambina. 

Rosalia, 17 luglio 2012



Ho visto una bambina al mare a Šilo sull'Isola di Krk in Croazia che subito mi ha fatto ripensare al racconto delle bambine dagli occhi trasparenti. La bambina era seduta, tutta nuda, in riva al mare; le onde la colpivano in mezzo alle gambe e lei si guardava perché, presumo, sentisse qualcosa. Faceva una tenerezza. Era lì tutta nuda, mi piaceva pensare che il suo piccolo corpicino, il suo sesso, la sua soggettività, tutta la sua persona, fossero anche per lei un mondo ancora tutto da scoprire, da capire.
Avere occhi trasparenti è stare al gioco di saper vedere qualcosa di non scontato o meglio qualcosa che la nostra cultura non è mai stata in grado di vedere. È il gioco di riuscire a vedere il sesso di una donna. Ma cosa significa, in questo caso, vedere? Cosa intendiamo quando diciamo di vedere il sesso femminile? 
Provo a leggere il testo di Letizia Comba “Ciò che non è verificabile” che mi ha suggerito Rosalia. Tra l'altro ritrovo descritto, per criticarlo, il discorso freudiano sulla bambina: per il padre della psicoanalisi il suo sesso interno, la vagina, è, durante l'infanzia, a livello propriocettivo inesistente. “È inverificabile alla vista. È nulla” commenta in modo polemico la Comba. Se però andassimo avanti col percorso freudiano scopriremmo che quel sesso interno diventerà il luogo emblematico della sua sessualità, della sua passività.
Dove Freud era riuscito a vedere e dove era cieco credendo di vedere?
Se è vero che non tutto può essere visto non dobbiamo, per questo, non vedere quello che abbiamo sotto il naso. Freud aveva ragione, quella bambina al mare avrà probabilmente sentito un calore clitorideo e non serve a nulla l'affannarsi di molte psicoanaliste per dimostrare che la bimba percepisce anche le sua cavità. È una verità candida, meglio ammetterlo che combattere per nulla. Perché nel cercare di contrastare Freud si finisce per raggiungere la stessa meta di Freud? 
Eppure anche a Freud presto si offusca la vista: comincia a predicare che quella bambina al mare è “un ometto” e presto o tardi dovrà diventare adulta e dovrà dimenticarsi di quella sensazione marina...
Se il discorso si è sempre strutturato sul rapporto tra un sesso e un non-sesso, tra un sesso visibile e invisibile, è forse imprudente dimenticarci che “eppur vediamo”. Nel dire che il sesso femminile è invisibile io scopro, empiricamente, che, invece, lo vedo. Una volta, per esempio, una donna era nuda accanto a me e le ho visto chiaramente i genitali: mi sono stupita della chiarezza della mia visione perché sono miope e in quel momento non portavo gli occhiali. Eppure quell'immagine mi si è stampata nella mente: la differenza dei colori, la bellezza della forma, il gioco di chiaroscuro. Quindi, se da un lato, potrei affermare con Irigaray “Voi uomini non ci vedete niente, non ne sapete niente, non vi ci ri-trovate, non vi ci ritrovate. E questo vi è insopportabile”, dall'altro potrei scoprire che in fondo riesco a vedere. L'indugiare della telecamera pornografica tra le pieghe dei genitali, invece, è quell'ossessione nel cercare ciò che non riesce a vedere. La nostra cultura è scopofila non perché vede, ma perché non riesce a vedere.
Quale menomazione visiva, quindi, ci fa aver paura di affogare ed essere inghiottite nel “nulla da vedere”? Anche la confusione nei termini per nominare il sesso di una donna è emblematica di una nostra visione non chiara: vulva? Vagina? Labbra? Clitoride? Monte di Venere? Ogni termine è, il più delle volte, usato a sproposito.
Inaspettatamente trovo una via d'uscita scorrendo le pagine di Donna Haraway, che sempre Rosalia mi ha invitata a leggere. Sin dalle prime righe penso confusamente: dobbiamo “semplificare la vista” renderla un senso tra gli altri, togliergli il fascino che ha ammaliato filosofi e scienziati. In altre parole scoprire, o forse riscoprire, qualcosa di  semplice e complesso al contempo. Semplice perché è ritrovare la vista come un senso, tra gli altri, che usiamo per vedere il mondo da una certa prospettiva. Complesso perché, per la nostra cultura, la vista non è un senso come gli altri; è stata eletta a senso supremo, il senso dell'oggettività scientifica che si arroga il diritto di non “situarsi”, il medium con cui il filosofo vede le idee
Quindi se semplifico la vista e guardo il mio sesso cosa vedo? 
Il mio sesso è sì minuto, ma visibile: vedo peli, piccole e grandi labbra, clitoride, vulva, nevi, imperfezioni della pelle, differenti colori, superfici variegate e cangianti.
Non mi serve lo specchio, ho solo bisogno di occhi trasparenti.

E abbiamo iniziato a montare le immagini...

Gioiosa marea è il nome di un paese in Sicilia, dove non sono mai stata. Tutte le volte però, il treno verso Palermo si è fermato alla stazione corrispondente. È  il primo tratto interminabile di mare che si ammira venendo dal continente, tornando. È il primo segno di riconoscimento che il paesaggio inconsapevole ti offre. Ne ho sempre goduto. Delle erbe marroni degli scogli sotto i piedi nudi, ne ho sempre goduto. Il piede poteva finalmente incedere senza paura di farsi del male. Ho l'impressione di camminare sulla testa di qualcuno, a volte da bambina ho avuto paura di fare male a questo qualcuno, che ad un certo punto si alzasse e mi facesse cadere. In questo video c’è tutto il godimento della mia infanzia, delle estati che per fortuna sono sempre tornate.
A mare bisogna fare attenzione alle cose piccole, a dove si mette il piede, gli occhi sono continuamente legati al passo: le spine dei ricci, le chele dei granchi che appaiono e scompaiono, i buchi degli scogli, gli spuntoni, il lippo, ovvero dove le erbette sono scivolose. Si deve sapere dove tuffarsi e dove no, se tra la sabbia o i ciottoli ci sono aghi, pezzi di vetro, bisogna che la vista misuri le distanze e le profondità, valuti se la superficie ha raccolto benzina e oli, se il fondale è nero per le alghe, chiaro per la sabbia, blu per gli abissi inimmaginabili. Acuire gli occhi. Per vedere passare i pesci, riconoscerli, schivare le meduse: sarà davvero una medusa? Sarà quello che mi sembra di vedere quest’ombra, questa trasparenza? Le insenature, le fratture tra gli scogli dove il sole non arriva. Non sforzarsi neanche di vedere qualcosa in quella direzione. Accettarne l'opacità.
Essendo tutto blu, il cielo e il mare, gli altri colori spiccano e il rosso soprattutto. Nel mare che ho conosciuto meglio ci sono i coralli, ma sui fondali, raramente ho incontrato qualche stella marina, molto più spesso i pomodori di mare. In alcuni punti delle isolette e della costa, sembrava fossero ovunque. Erano rossi, come il segno del pericolo. Non dovevo toccarli per attrazione né sfiorarli per distrazione. La minaccia era l'irritazione, un bruciore forte, quasi un'ustione, come quando ti si appoggia una medusa, e l'immaginazione correva ai fiori carnivori, ai morsi, ai pezzi di corpo staccati, alle pelle in cancrena, alle amputazioni delle dita.
Un terrore che mi è servito ad imparare il rispetto per il mare e la natura nella sua grandezza, ferocia, imprevedibilità. Se il mare non vuole, tu non puoi.
Riconoscere questi limiti me ha insinuati altri. Per esempio che non si può toccare sempre quello che si ama.
Amare con la vista è stato allora spesso un mio modo di amare. Ma solo quello che si offriva alla superficie del mio sguardo, senza la pretesa di potere svelare, né tanto meno scoprire alcunché. Ho sempre preferito la vista sfocata a quella precisa indossando una maschera. Le dimensioni dell'abisso non ho mai voluto apprezzarle, se non ad occhio nudo.
Se penso al mio corpo e al mio sesso, direi che è stato lo stesso. Lo vedo come vedo il mare e il suo mondo. Acuisco gli occhi per entrare meglio in relazione.
Ma non ho mai pensato di volere sapere se era vero quello che vedevo, se era come doveva essere. Non ho mai voluto realmente sapere se corrispondeva o meno al disegno di un atlante anatomico. Che a volte ho sfogliato, specchiandomi, ma che, in fondo, ho subito dimenticato. Sono vissuta in un momento storico in cui circolavano già tante informazioni corrette sui corpi delle donne, e ho sempre avuto a disposizione molte fonti di informazione scientifica. Ma la cosa fondamentale è stato affinare l'intuito nel riconoscere le persone di cui potevo fidarmi e che sarebbero state con me nel sentire il mio corpo.
Tutte le strumentazioni che sanno dire la “verità” mi mettono a disagio. Anche le ansie conoscitive; per un certo periodo, non ho voluto togliere i peli sul sesso, per non vedere quello che posso toccare. Ho pensato che fosse un retaggio del patriarcato ed ho tagliato i peli  per trasgredire a me stessa in questa paura. 
Il tuo sesso, che tocco, lo vedo sul tuo viso.
Sì, forse si può chiamare anche paura di vedere. È una paura venuta dal patriarcato? Non lo so.
Cercare di vedere il sesso con precisione mi riporta a volte ad uno stato di irritazione. Come davanti ad un qualcosa che non deve essere visto per non essere consumato e che può essere visto nella misura in cui chi lo vede sa talmente della vita e della nascita. A volte non mi sento ancora all'altezza, mi irrita la vista. E penso che sia vicino ad una sensazione che ho vissuto per un periodo della mia vita: non volevo sentire l'orgasmo, o meglio, volevo sentirne l'inizio, ma poi, avrei voluto che le contrazioni cessassero immediatamente.
Volevo dimenticarlo perché il piacere era tale da essere insopportabile

Questa paura, infatti, si compone anche di: rispetto per il mistero che il mio corpo costituisce, non volere sapere cosa mi tiene in vita, quale segreto meccanismo lo consente. Non ho bisogno di vedere con precisione per sapere cosa mi fa stare bene e cosa mi fa stare male, cosa mi permette insomma di godere del tempo e delle relazioni, di stare in salute.

Il piacere ha sempre avuto il sapore di pesce.
È, con variazioni di intensità, quello che odoravo tra la biancheria usata di mia madre. O, camminando d'estate per la città, quello dei resti misti di cibo, riscaldati dal sole, ammucchiati nei sacchi di plastica. Oppure l'odore, passando davanti ad una pescheria, dell'acqua stagnante nei canaletti accanto ai marciapiedi, al mercato.
Allora, immagino una vecchia a cosce aperte, senza mutande per il caldo. L'odore del suo sesso inonda l'aria.
Ha delle sfumature di nauseabondo e di appetitoso. Dipende dall'umore.
D'inverno il mare diventa il mio delirio. Diventa il delirio del mare. 
In vasca, mi guardo dall'ombelico fino ai piedi, sotto la superficie dell'acqua. L'ossigeno intorno ai peli ricrea le bollicine delle erbe di scoglio. La schiuma di sapone simula il bianco delle onde. La passo lungo la linea aperta dell'ano. Che ha la stessa forma del fianco rotondo di una barca. L'ancora è il tappo di plastica nera con la catenella, che non fa scivolare via l'acqua.
Il ghiaccio è cresciuto. Ci vorrebbe un rosso, di uovo o di sole, per le dita tentacoli di polipi e seppie. Ci vorrebbero ondate di rosso. Mentre ti sto a cavalcioni, ti chiedo: respira profondo. Il seno invade, è un fiore carnivoro, un pomodoro di mare. Lo tocco finalmente. Spinge l'acqua e non hai più bordi.


Nell'estate del 1995, per la prima volta, mi innamorai dei pomodori di mare. Ero a Beli, o meglio Caisole, un paese di quaranta anime, sull'Isola di Cres. Beli era il nome dato da Tito, Caisole il nome romano. Gli abitanti che parlavano un po' croato, ma più spesso italiano, ma soprattutto veneto, preferivano chiamare il loro piccolo paesino col nome datogli dagli antichi romani.
L'incontro coi pomodori avvenne nella cosiddetta “Baia del prete”. Verso le sei di sera arrivava il prete del paese, un uomo gentile e cordiale che inutilmente si spazientiva col “vizio” dei croati di andar nudi in spiaggia. Io amavo quei luoghi, lì scoprivo conchiglie (se le giravi trovavi il colore della madreperla) anemoni, pomodori di mare, un'infinità di ricci. L'acqua era pura cristallina, lì mi sentivo a casa. 

“Un'immagine della mia sessualità è questa: acqua limpida di sorgente. All'inizio non ci voglio entrare perché è un po' fredda, ma poi scopro che è pulita, è di sorgente e quindi ci voglio entrare perché è una cosa pura.”
Alba, 24 luglio 2012, per la prima volta a casa di Rosalia

Lì non temevo di entrare nell'acqua per esplorare tutti gli anfratti, i pertugi, le insenature delle rocce e toccavo tutto, meno i ricci di mare... Lì scoprivo quella morbida e piacevolmente viscidità del pomodoro che si chiudeva timido ai miei tocchi insistenti. A volte, quando non sapeva di esser guardato, potevo ammirarlo aperto che meravigliosamente muoveva i suoi piccoli tentacolini rossi e appiccicosi.
L'immagine dei pomodorini è sfaccettata dentro di me, ma sempre riguarda bocca, lingua, oralità, mucose.

La tetta è pomodoro di mare. Leccherei un pomodoro di mare come fosse una tetta.
Il glande è pomodoro di mare. Leccarlo è pomodoro di mare.
La vulva è pomodoro di mare. Leccarla è pomodoro di mare.

Mi piace la forma che ha e quel liquido che la rende morbida, mi piace quando è bagnata perché mi ricorda il sapore del mare. Mi piace leccarla perché è inebriante, perché è eccitante, perché così mi bagno anche io, mi inondo anche io. Mi piace toccarla, le piccole labbra sono una gioia, la clitoride in bocca è una delizia, un piccolo animale marino che pulsa, che timido sembra ritrarsi, ma invece ti sussurra gridando ancora ancora ancora...

Le tette sono gustose ed eccitanti quando respirano. Sono "orali": si possono mettere in bocca e ci stanno bene e poi cosa può richiamare il capezzolo se non la lingua? E io adoro mettere in bocca... 

Da ragazzina scoprivo, anche, la giocosità dell'anemone che sempre si muove e, se lo tocchi, meno timido del pomodoro, ti prende, ti trattiene, ma non ti bracca, non ti intrappola. 
Quello che mi piace lo voglio toccare? Se vedo qualcosa che mi piace lo voglio irresistibilmente toccare?
Forse non per tutto, ma così mi succede con anemoni e pomodori di mare. Spavalda contro il loro liquido velenoso? Oppure talmente ignara da esserne immune?

Orchidea. Guardando la fotografia di un'orchidea ho visto una clitoride ipertrofica e mi sono chiesta: Perché diciamo che il nostro sesso è invisibile poiché interno e ci dimentichiamo di guardare tutti i genitali esterni?
Alba, 2 dicembre 2012

Il genitale europeo

La parte celata del sesso, la vagina, è un segreto che chiunque ormai può impunemente violare. È una parte del nostro sesso colonizzata, da cui passano parole, discorsi, saperi. Qualsiasi pene-sapere può farsi beffa di quel segreto. È luogo di colonizzazione ormai buffo perché tanto scontato da essere scordato come luogo di colonizzazione.
La mappatura del mio sesso esterno è una miniatura finemente composta: relativamente esteso, minuto e ben disegnato in tutte le sue piccole parti. Tutta questa mappa sembra essere dimenticata, non vista. Ciò che non si nota riesce a significarsi autonomamente? A questa miniatura filigranata posso darci senso, un mio senso, perché misconosciuta, inosservata. Il genitale esterno è dimenticato e, in un certo senso, quindi, anche inviolabile. Se nessuno lo nota ci possiamo fare qualunque cosa. Nessuno lo può rubare: così piccolo è riuscito ad essere argento vivo, è stato sfuggente.
La geografia del mio sesso è europea. Non ho potuto fare a meno di pensarlo mentre raccontavo tutto questo a Rosalia. L'inviolabilità dei genitali esterni è situata geograficamente. 
Piccole e grandi labbra, clitoride, vulva, perineo sono messi al bando tramite la misconoscenza in Europa. Se la psicoanalisi si prodigava nel passaggio da una fase fallica clitoridea ad una fase genitale vaginale forse la pensava possibile tramite il solo intervento della parola, di un discorso ben formulato e di una buona dose di smemoratezza. La ragazza sembra dover diventare la smemorata di Collegno per poter superare la fase fallica con un'amnesia.
Sembra strano che digitando su google: genitale europeo i risultati della ricerca siano una profusione di siti sulle mutilazioni genitali femminili praticate secondo alcune tradizioni africane. 
Visto che alcune di queste modificazioni trasformano le funzionalità della clitoride, mi viene da pensare che in quelle tradizioni, a differenza che nella nostra, paradossalmente, pur nella violenza del controllo, ci sia stato un pieno riconoscimento della clitoride come sesso della donna.

Disegnare la mappatura del mio sesso, ora, significa anche nutrire la mia fonte di piacere.

Veronetta, primavera 2013


This entry was posted on 9.10.2013 and is filed under . You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. You can leave a response.