Da Le Vocianti
di Silvia Cavalieri
Travolti dall’utilitarismo spicciolo che s’insinua in tutti gli angoli del nostro sentire, troppo spesso ci limitiamo a pensare che la lingua non sia altro che uno strumento di comunicazione, dimenticandoci che, come scriveva il filosofo Wilhelm von Humboldt, la lingua è enérgeia, attività quindi: codice di scambio, certo, ma soprattutto processo chestruttura la nostra visione del mondo.
Interrogarci sugli automatismi verbali, contrastare le cristallizzazioni provando a domandarci la prospettiva che sottintendono, sottrarci alle inerzie linguistiche apparentemente innocue, non cedere alla pigrizia di rifugiarci nelle frasi fatte, sono tutti sani esercizi di dissenso che dovremmo sforzarci di praticare il più possibile, anche per testimoniare in maniera risoluta la nostra volontà antiadattiva a un sistema sempre più surrettiziamente iniquo.
Sulla violenza che si dà attraverso la rappresentazione simbolica veicolata dal linguaggio verbale ci siamo soffermate a riflettere in più occasioni. Ed è proprio in questo filone che si colloca l’interessante ricerca della scrittrice e storica Daria Martelli sulla tradizione popolare veneta: Le parole di ieri sulla donna – Una ricerca di genere sulle nostre radici culturali. Il contributo è particolarmente prezioso perchè l’autrice sceglie di dare un taglio di genere, configurando la sensibilità popolare a partire dai proverbi che hanno a che fare con le donne. Il periodo preso in esame è quello che va dalla seconda guerra mondiale agli anni settanta del Novecento, ma l’indagine risale ben più indietro nei secoli, fino a delineare quel paesaggio arcaico che continua a lasciar riaffiorare i suoi resti tuttora, intridendo l’immaginario squilibrato che alimenta la nostra quotidianità, abitata da quel “sessismo ordinario” a cui molti – e perfino molte – di noi non fanno nemmeno più caso, poiché dentro a un sistema capillarmente ingiusto, l’ingiustizia tende a passare inosservata: gli sguardi si spengono.
Il fatto che Le parole di ieri sulla donna sia un saggio di storia locale non deve trarci in inganno: come ogni lettore potrà constatare rapportandosi al proprio vissuto, la realtà regionale veneta non è che una lente d’ingrandimento su un fenomeno estendibile all’intera nazione italiana, la quale nell’inveterato sessismo che contraddistingue le sue pur diversissime culture tradizionali pare trovare un’insperata coesione.
Tradizioni, riti e, soprattutto, detti popolari vengono passati scrupolosamente al setaccio: la vecchia bruciata a Capodanno come implicito monito per le “streghe”, tradizione “ancora oggi promossa da Comuni e Pro Loco” (p. 45), l’usanza di non accogliere donne in casa il primo dell’anno perché si riteneva portassero sfortuna (è capitato anche a me, nell’emancipatissima Bologna dei primi anni Ottanta), la doppia morale che guarda le donne con sospetto a ogni segnale di intraprendenza (in qualsiasi campo), mentre esalta l’uomo-cacciatore, la cui virilità viene incrinata se lui per caso non coglie ogni occasione che gli si presenta, proverbi violenti e offensivi sulla donna che invecchia, perdendo attrattiva e, ergo, ogni tipo di riconoscimento sociale (e Loredana Lipperini, nel suo Non è un paese per vecchie, dimostra chiaramente la deriva atroce di questo pregiudizio nella società contemporanea). E ancora la strada obbligata del matrimonio come unica possibilità per la donna di affermare il “proprio” valore sociale (solo con il nuovo diritto di famiglia che entra in vigore nel 1975 la donna comincia a conservare il proprio cognome “e la propria identità”, p. 73); il disprezzo contro le donne considerate infeconde, a ragione o a torto, poiché spesso era l’uomo a essere sterile ma questo era culturalmente… inconcepibile; la donna come proprietà maschile, al pari degli animali domestici e che, come loro, poteva venire disprezzata e maltrattata (una concezione implicita nei numerosissimi casi di femminicidio che rabbuiano le nostre cronache); i danni incalcolabili legati al tabù del corpo per cui molte donne invecchiavano nella più completa ignoranza sessuale, ancora più paradossale se si pensa che molte di loro erano madri di parecchi figli.
Tutti tratti dell’identità collettiva che molto hanno a che vedere con la lentezza dimostrata dalla legislazione italiana nel riconoscere i diritti delle donne, particolarmente in ambito coniugale: il reato distalking, per dirne una, viene riconosciuto solo nel 2009. Alla luce di questo contesto allarmante è interessante anche sottolineare, come fa l’autrice, lo slittamento semantico dell’espressione dignità femminile, che connotava originariamente quel pudore che si traduceva molto spesso in reticenza, facendo sì che la maggior parte delle vittime non denunciassero reati come le violenze maritali, gli stupri e gli incesti, mentre dagli anni settanta in poi la dignità è divenuta per la donna il diritto di essere rispettata in quanto persona (p. 79).
La dominante misoginia condizionava non solo il modo in cui le donne venivano viste, ma anche quello in cui si vedevano loro stesse; in loro toglieva autostima, provocava insicurezza e soggezione, induceva una dipendenza psichica dall’uomo e faceva sì che molte rinunciassero a una formazione che avrebbe potuto essere la chiave della loro liberazione. Come questa perniciosa “violenza simbolica” veda spesso le vittime colluse coi carnefici, al punto da farsi custodi del loro ordine perverso e penalizzante lo spiega molto bene Pierre Bourdieu nel Dominio maschile.
Scegliendo di utilizzare per la sua ricerca di genere soprattutto i proverbi e i modi di dire, Daria Martelli evidenzia come i “luoghi comuni” linguistici, registrando quelli che sono i “modi collettivi di pensare”, costituiscano un patrimonio prezioso per ricostruire la storia delle mentalità e il contesto socio-relazionale che, attraverso i secoli, si rifrange nella vita contemporanea. Queste discriminazioni linguistiche miravano, infatti, a mantenere la donna in uno stato subalterno, erano potenti serbatoi di precetti per la condotta quotidiana, vere e proprie guide di relazioni fra i generi, con la loro ridondanza, la loro struttura facile – per lo più bipartita e in rima – il loro lessico forte, spesso volgare o comunque allusivo, nella maggior parte dei casi inerente il campo semantico della sessualità (una sessualità il più possibile animalizzata, proprio a suggerire ossessivamente l’analogia fra la donna e la bestia): la misoginia indotta culturalmente ha cioè, una “funzione politica” (28), silenziante e banalizzante, riduttiva nei confronti di quello che altrove abbiamo chiamato l’infinito pluriverso femminile. Basta pensare, tornando a insistere sulla questione linguistica, alla connotazione negativa, per lo più a sfumatura sessuale, che assumono certi termini soltanto se usati al femminile, mentre al maschile significano tutt’altro: pensiamo alle coppie semanticamente asimmetriche formate da donna pubblica e uomo pubblico, mondana e mondano, donna allegra e uomo allegro, passeggiatrice e passeggiatore, donna pubblica e uomo pubblico, o pensiamo al sostantivo invariabile governante e ai suoi significati che non hanno nulla a che fare l’una con l’altro se la parola è riferita a un uomo o a una donna (p. 49).
Si insiste giustamente nel sottolineare il nesso fra passato e presente, su come essi si illuminino a vicenda: la verticalità dello sguardo dello storico diventa doppiamente arricchente in una realtà tesa ad appiattirsi sull’hic et nunc, in cui tutto viene triturato in una giostra effimera di eventi eclatanti che svaniscono nel nulla, sempre colti nella loro deflagrante spettacolarità e mai nella rete di relazioni in cui sono immersi né nell’accumulo di cause ed eventi pregressi che, anche indirettamente, li provocano. L’autrice invece è ben conscia di come il suo lavoro abbia una portata politico-sociale più che viva, scottante per quanto attuale: “Non viene mai colta la corresponsabilità di questa secolare istigazione della cultura popolare per certi persistenti aspetti della condizione femminile, come, per esempio, per la violenza maschile che ancor oggi si scatena contro le donne soprattutto nell’ambito familiare: è anche per il retaggio di questa cultura che ancor oggi molti uomini si sentono legittimati in certi comportamenti” (p. 23).
La lingua è profondamente collusa in questo processo subordinante. Non è mai innocente: è un organismo dinamico, in continua trasformazione. Prendere coscienza dei meccanismi di potere che riflette è un primo passo per cominciare a trasformare le pratiche relazionali, cambiando proprio la lingua stessa, facendone usi diversi. E consapevoli.
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