Terre di confine/La frontera

Come recensione del libro "Terre di confine/La frontera" di Gloria Anzaldua, vi proponiamo una sua intervista a cura di Paola Zaccaria.


Biografia (a cura di Paola Zaccaria)
G. Anzaldúa (1942), scrittrice e poeta chicana del Sud del Texas, attualmente residente a Santa Cruz, California. Nel 1983 ha curato, insieme a Cherríe Moraga, la prima antologia di scritti di donne di colore radicali: This Bridge Called My Back (Questo ponte chiamato schiena). Il suo complesso testo politico, poetico, radicale, lesbico, mitologico, autobiografico, storico e altro ancora Borderlands/La Frontera: The New Mestiza, pubblicato nel 1987, portando insieme lingua e cultura spagnola e inglese, ha dato grande impulso alla letteratura e alla coscienza chicana ma anche latina, ponendo al centro del dibattito politico ed estetico la questione/simbolo della frontiera e degli attraversamenti culturali. Nel 1989 ha curato la raccolta di saggi Making Face, Making Soul/Haciendo Caras: Creative and Critical Perspectives by Feminists of Color (Fare facce, fare anima: Prospettive creative e critiche di femministe di colore) in cui vengono affrontate questioni come l’identità culturale, il razzismo, il femminismo e la letteratura multietnica e multilingue È anche autrice di letteratura per bambini: un libro illustrato bilingue dal titolo Prietita has a friend/Prietita tiene un amigo (1991), cui seguono Friends from the Other Side/Amigos del Otro Lado (1993) e Prietita y La Llorona (1996). Ha insegnato scrittura creativa, studi chicani e femministi in varie università statunitensi ed è collaboratrice della rivista femminista lesbica "Sinister Wisdom"..

Intervista a Gloria Anzaldúa
di Paola Zaccaria
19 Ottobre 1998. Santa Cruz, California.
Viene a prendermi alla fermata dell’autobus con una macchina piccola e vecchia, altamente non american-style. È piccoletta, ha tagliato i capelli rispetto alle foto che avevo visto di lei, non è imbarazzata dalla sconosciuta che, senza mediazioni, ha accettato di ricevere per un’intervista. Parla con precisione, non ingoiando sillabe, con un leggero accento messicano: è l’esatto rovescio delle voci stridule o troppo su di tono dello stereotipo linguistico americano. Andiamo subito a casa sua, una villetta nella periferia verso il mare. Mi accolgono colori e segni messicano americani: oggetti, copertine in stile messicano tradizionale, ma soprattutto disegni, dipinti, sculturine, specchietti chiaramente segnati da ibridazioni, o come direbbe lei, mestizajed. Sono quasi tutti doni, per lo più donne che, ispirate dal suo lavoro teorico e creativo, a loro volta hanno creato. M’ informa su chi e perché ha fatto gli oggetti su cui si sofferma la mia attenzione, o me ne indica altri che lei ritiene esteticamente significativi o particolari per la storia che sta dietro il manufatto.
Poi mi mostra la stanza in cui scrive, luminosa, con un letto-divano posto sotto una grande finestra a vetri che si affaccia sul giardinetto interno. È qui che scrive, sostenuta da un ingegnoso sistema di cuscini anatomici che la sostengono nella posizione di lettura, o di scrittura, o di sonno.
È qui che m’invita a sedere per iniziare l’intervista.

Come spiegheresti ad un pubblico italiano, cui la questione del mestizaje è sconosciuta, il percorso che ha condotto te e altri intelletttuali della tua comunità ad elaborare un modo di pensare/essere definibile come mestizaje? Sebbene anche in Italia ci sia stata migrazione interna, sebbene vi sia stata discriminazione e ancora c’è un conflitto irrisolto fra il Nord e il Sud, nonostante stiamo cominciando a conoscere le dinamiche delle migrazioni, non c’è stata un’elaborazione di un pensiero e di una coscienza così profondi come l’idea della mestiza, che implica l’essere culturalmente sia questo sia quello, non semplicemente o l’uno o l’altro.

G.A.: Quando ti ritrovi ad essere una donna in un mondo di uomini o una messicana in un mondo bianco d’origine inglese o una chicana in un mondo messicano attraverso le frontiere; o sei qualcuno che viene da una classe campesina e di colpo ti ritrovi a far parte della classe intellettuale, in un’ambiente accademico, allora cominci ad essere consapevole che esistono mondi differenti. Nel mio caso realizzai che non ero semplicemente una donna o semplicemente una messicana o semplicemente una chicana, o semplicemente quella particolare persona che avevo sempre pensato di essere basandomi sulle definizioni di me che venivano dalla mia cultura, ma che c’erano delle cose che mi riguardavano che esistevano al di fuori della cultura, al di fuori della cultura messicana e al di fuori della cultura bianca.
Cominciai così a fare attenzione a come ero e a come guardavo alle cose, alla gente; cominciai a fare attenzione a come pensavo alla natura, a ciò che stava accadendo al mondo e a ciò che stava accadendo all’interno della mia testa, e realizzai di essere come una pianta che era stata innestata su altre, differenti comunità, mondi, culture, ideologie, e che questo era il futuro, questo era come sarebbe stato il mondo perché il tempo ha avuto un’accelerazione a causa dei progressi tecnologici, come internet, e che la gente va di meno da un mondo in un altro. Puoi essere in Italia e comunicare con me in Santa Cruz o puoi prendere l’aereo e ritrovarti nel mezzo di culture completamente differenti.

Che impatto ha tutto questo sul modo con cui percepisci il mondo? Cominciai così a cercare di formulare questo concetto di mestizaje in modo che fosse comprensibile agli altri nelle conferenze e nelle opere che andavo scrivendo. Una delle immagini visive attraverso cui cercavo di trasmettere tutto questo era una figura stilizzata con tutte queste diverse gambe e con tutti questi diversi mondi: l’ebrea, l’eterosessuale, la queer, la bianca, l’accademica, la campesina… sai, tutti i diversi mondi in cui la gente naviga quotidianamente, e così questa figura stilizzata con tutte queste differenti gambe rappresenta le diverse comunbità, le diverse culture. Intorno alla figura c’era una cornice di riferimento bianca perché ogni cosa in questa nazione è vista da una prospettiva culturale bianca angla: la cultura popolare, i massmedia, l’educazione accademica – la cultura bianca è ovunque. Nel bel mezzo di questo grande cerchio che ho dipinto come un oceano c’è un pesce, e il pesce non è consapevole del proprio elemento, l’acqua, finché non lo tiri fuori dall’acqua.
È quel che accade alla gente che non è consapevole dell’aria che respira, dell’acqua che beve, della cultura cui fa riferimento. Pensa che sia un qualcosa di dato, un modo naturale d’essere, una legge della realtà, ma quando il pesce fuoriesce dall’oceano, realizza che la realtà è definita in quel modo solo dalle persone di quel particolare oceano, di quella particolare cultura, e che tutti i gruppi hanno le proprie differenti ideologie, il proprio modo di percepire la realtà, il proprio modo di dire com’è l’acqua. Così hai tante immagini di tanti mondi.
Quel che una persona che vive in un mondo mestizajed, un mondo di razze miste, di classi miste, di professioni miste, di sensibilità miste, quel che una persona mestiza comincia a fare nella sua mente è affrontare una specie di, come dire, una specie di terrore, di lotta, di trauma, dovendo traslare dal mondo chicano in quello bianco in quello messicano, o nel mondo accademico. C’è un sentimento di paura che si accompagna al trauma – paura di pericolo per la propria casa, la propria appartenenza. Ma quando hai attraversato il trauma, e sei dall’altra parte, realizzi d’aver sviluppato delle abilità e così questa cosa che era una lotta, era una forma di oppressione, tutt’ad un tratto diventa questa forza, quest’abilità, questa facilità di viaggiare attraverso mondi. E io penso che le persone che non rientrano mai completamente nella loro comunità – io per esempio non mi sono mai sentita a mio agio nella comunità chicana che vive nel Sud del Texas –, le persone come me che non sono mai rientrate nella cultura anglo-americana bianca, così che avvertono quella spaccatura, e poi non mi sono adattata alla comunità chicana, e così c’è un’altra spaccatura; e mai mi sono integrata nella cultura accademica tradizionale, e così ancora un’altra spaccatura – penso che persone così ce ne siano tante, persone che abitano le incrinature, e che non realizzano la cosa, si ritengono normali, o pur ritenendosi diversi, strani, proiettano su altri: ebrei, queer, immigrati illegali, o altro. Proiettando sugli altri, conservano l’illusione di essere normali, nella media. Ma ci sono gruppi in questo paese – neri, asiatici, chicanos, nativi americani, queers, ebrei, poveri – che sanno di non essere a misura della norma, sanno di abitare queste spaccature. Penso che quello che cercavo di articolare quando scrivevo Borderlands è qualcosa che tantissima gente stava al tempo sperimentando: ecco perché quando hanno letto Borderlands hanno risposto in modo straordinario – perché si sono visti riflessi in questo testo; hanno visto che la loro vita era così, ma che mai era stata articolata in questo tipo di stile. Sentivano di non avere parole, il vocabolario inglese che possedevano non aveva le parole per descrivere questa realtà. Perciò una delle ragioni per le quali ho usato la lingua messicano americana, la lingua chicana, lo spagnolo e non altre lingue, è perché il vocabolario che molti posseggono è fatto di parole che vengono dalla filosofia europea. E questa realtà che io cercavo di articolare, e non ero l’unica a fare il tentativo, sono una delle tante, non poteva far uso delle vecchie parole: dovevo coniare nuove parole, o prendere le vecchie parole e usarle in modo nuovo. Così, mestizaje era questo tipo di parola. Non potevo semplicemente dire mestizo/mestiza, doveva essere la nuova mestiza, perché la vecchia mestiza indicava il sangue misto, ma io non stavo parlando di biologia: parlavo di cultura. E penso che mestizaje è il futuro perché il tempo impiegato per viaggiare diventa sempre più breve, così penso che ci ritroveremo a navigare in più mondi in minor tempo. Ciò implica che quando sei uno che lavora nel mondo degli affari o dell’accademia, le teorie vanno da un mondo all’altro, da un computer all’altro; quando leggi qualcosa teorizzata da una chicana o da una donna nera e tu sei italiana, allora comincia il processo di andare dall’Italia negli Stati Uniti: qualcosa accade al modo di percepire la realtà. È di questo che parlo, parlo dei cambiamenti o delle modificazioni di prospettiva, e delle modificazioni e cambiamenti di percezione che portano al cambiamento di pensiero e sentimenti. Così, stiamo parlando di un processo che non significa solo viaggiare per il mondo ma fare il mondo. In altri termini: tu sai di essere italiana e sai di avere una certa cultura, un’ideologia con la quale sei cresciuta, e che quella cultura definisce la realtà così e così e definisce il genere e crea una parvenza di un mondo con le sue leggi, regole e costumi, e tutt’ad un tratto lasci quel mondo che la tua cultura ha voluto per te e vieni nel mondo chicano, e leggi quella letteratura e mangi con i chicanos e t’immergi in quella cultura. Quando ritornerai a casa, porterai con te qualche nuova percezione e così il tuo vecchio mondo dovrà essere modificato, cambiato, e a volte ricostruito secondo il femminismo o secondo qualcosa di fisico che hai appreso, o secondo qualche nuova idea sulla socializzazione che hai appreso– così in realtà stai ricostruendo il tuo mondo. Hai solo viaggiato attraverso mondi, ma quando ritorni devi rifare il tuo mondo.
Sto cercando di mettere in parole tutto ciò. Al momento sto lavorando al fine di mostrare come il modo con cui un’artista crea un dipinto o uno scrittore crea una storia è molto simile alla modalità con cui noi creamo la nostra realtà, il nostro mondo. Sto rintracciando le analogie fra le nuove idee sulla fisiologia, sulla genetica, sulla matematica – le idee della comunità scientifica – e le sto confrontando, e mi servono per parlare di creatività e composizione e scrivere storie.
Sto usando alcune di quelle idee ma sto anche usando il modo con cui una persona crea un testo per parlare di come il mondo è creato, di come il mondo è testo. Perché se il mondo è un testo, chi ha scritto il testo? C’è un dio? Sto inoltrandomi in questo tipo di idee…

Volevo appunto chiederti del tuo nuovo lavoro, conoscere su quali questioni estetiche e politiche si focalizza al momento la tua poetica.

G.A.: Mi sto concentrando sul narrare, sulle storie. Sai bene che c’è la storia della scienza, c’è una storia della democrazia, c’è una storia del comunismo, del femminismo – ci sono tutte queste differenti storie. Sto riflettendo su come sono costruite queste storie, e com’ è costruito il mondo narrativo. E sto interrogando il mio personale processo nel manovrare tutti questi differenti stati mentali, a seconda se uso il cervello destro o sinistro; o se passo dallo stato del sogno in cui immaginativamente un personaggio o una scena sono creati, a quello della consapevolezza in cui tutto è osservato in modo razionale; e come i diversi cervelli interagiscono quando si formulano idee sul raccontare o quando si percepisce la realtà, o quando si pensa a qualcosa che è accaduto nel passato, ai ricordi. M’interessa come lavora la mente, come lavora la consapevolezza. É qualcosa che sto facendo a due differenti livelli: lo sto facendo nella scrittura di memoria di tipo non-fictional, come ho fatto in Borderlands, e lo sto facendo in riferimento alla narrativa, alla fiction: come posso prendere queste idee e drammatizzarle. Il problema per me è che in quel genere particolare, il campo della narrativa, non puoi teorizzare, non puoi descrivere, definire quel che i personaggi stanno cercando di fare o quel che essi stanno pensando. L’autore non può entrare nella narrazione e dire: questo è quel che io penso sulla realtà. Occorre drammatizzarlo, ricrearlo per il lettore, così che il lettore ne faccia esperienza senza che lo scrittore entri nella sua testa e dica: è questa l’idea che ti voglio trasmettere. Tendo ad un tipo di scrittura dove posso dire al lettore: questo è come io percepisco la realtà, queste sono le mie idee sulla costruzione del mondo.
Lo posso fare, ma non lo posso fare nella fiction. I due progetti sui quali proprio al momento sto lavorando in parallelo sono: cercare di narrativizzare le idee che ti ho appena espresso – le nostre percezioni circa la costruzione del mondo, su come lavorano la coscienza, la mente, i sentimenti e i pensieri, e come essi sono filtrati attraverso le percezioni e come la percezione dipenda dalla percezione visiva, ma purtroppo gli umani riescono a cogliere solo il 5% dell’intera gamma di colori dello spettro. Ci sono realtà che riusciamo a percepire, ma la realtà che ci è permesso di percepire è solo quella che la nostra cultura ci consente: non sei autorizzata a vedere fantasmi, non sei autorizzata a ritenere che ci sia una realtà spirituale e che ci sia una coscienza nella natura, per cui ti senti parte di un tutto: gli alberi, il cielo, l’oceano, ogni cosa vivente…tutto ciò non fa parte della nostra cultura, non siamo autorizzate a percepirlo. Se lo percepisci sei un anacronismo perché si suppone che solo i popoli primitivi possano avere questa connessione con la natura, o riescano a percepire gli spiriti. Certe percezioni della realtà sono, come dire, messe al bando. Così, nel mio lavoro narrativo, sto cercando di creare mondi in cui queste realtà sono altrettanto reali della TV o del notiziario che ascoltiamo ogni giorno; sto cercando di creare uno spazio della fantasia nel testo, così che il lettore, nel mentre legge questo tipo di storia, ritenga vera quella fantasia.
Quando scrivo per il testo intitolato La Prieta, in un lavoro parallelo chiamato appunto Writing Outside La Prieta,trascrivo le mie lotte con la scrittura, le idee e il modo con cui presentarle, e tramite questo rieco ad arrivare a come descrivere e teorizzare e spiegare come voglio che le cose siano. A volte per ogni giorno di lavoro ho come un incendio, un fuoco che divampa al di fuori della storia, molto più lungo della storia. Per tre-quattro pagine di racconto, posso aver scritto ventisei pagine su quel che ho fatto.
Questo dunque è il primo progetto di cui ti dicevo. L’altro progetto è parlare delle idee che ho cominciato a sperimentare, o tentato d’articolare in Borderlands. Si tratta di una specie di seguito a Borderlands, dove teorizzo la lettura della realtà, del mondo, la lettura di quel che avviene nelle strade, di quel che avviene in famiglia. Scrivere, ma non scrivere solo fictions; non solo, voglio dire, scrivere come atto fisico di prendere il mondo e metterlo sulla pagina, ma anche come scriviamo il mondo, come creiamo questi mondi, come inscriviamo le nostre idee circa la realtà sul mondo, e come nasce il dubbio. Ho in corso tutti questi progetti …

Mi sembra un bel po’!

G.A.: È piacevole sedere qui (nella stanza-studio) mentre scrivo e penso; sedere qui e guardare gli uccellini, vieni a vedere, uccellini che vanno da un fiore ad un altro – è così che le nostre idee vanno fuori, vanno da una cultura all’altro

Sì, come l’andare da una cultura all’altra. È per questo che per dire dell’attraversamento tu parli di impollinazione incrociata…

G.A.: Sì. E quando il vento è forte, sento le onde che s’infrangono, e in quelle onde che vengono e vanno e vengono… c’è come assenza di tempo. Tutto ciò, l’essere qui in questo posto, è collegato al tipo di vita che vivo.

Ti volevo anche chiedere qualcosa rispetto al mito. La tua opera è ricca di riferimenti mitologici, religiosi e culturali pre-colombiani, ma anche cristiani. Ritieni che sia facile per i lettori in genere, ma anche per lettori chicanos e chicanas riconoscere i miti e cogliere le implicazioni delle tue elaborazioni del mito. Voglio dire, che cosa sanno oggi, i lettori e le lettrici di quelle leggende, di quei miti?

G.A.: Penso che sia difficile per la gente della mia cultura o di qualsiasi altra cultura, perché la società moderna si è completamente tagliata fuori dal passato – non soli i chicanos, ma ovunque. Penso però che ci sono delle immagini e dei simboli e delle figure culturali, delle mitologie, che io posso articolare in modo che bypassino la mente consapevole e vadano in quell’altra parte del cervello, dove le idee non sono articolate, ma semplicemente noi vi reagiamo. Così, quando parlo di Coatlicue, in qualche modo essi sanno di cosa sto parlando, ma una volta che inizio a lavorare con simboli e temi che hanno a che fare con questa figura, in qualche modo qualcosa dentro di loro risuona, tanto che alcuni iniziano a fare ricerche. Per esempio, quando per la prima volta mi sono imbattuta in Rosario Castellanos, incontrai la parola "Nepantla", e cominciai a rifletterci su. Originariamente, Castellanos per Nepantla intendeva lo spazio fra i vivi e i morti. Quando io ho cominciato ad usare questo termine, l’ho inteso come lo spazio del "tra", lo spazio "fra le spaccature" di cui ti parlavo prima. Nello stesso modo, la gente che legge la mia opera e legge di Coatlicue, fa delle ricerche e poi utilizza quel mito in modo nuovo. Ho sentito gente che diceva: questo è stato ispirato da quella tua particolare idea… In un certo modo noi c’impolliniamo l’un l’altra, si ispiriamo vicendevolmente.
Così, cominciamo col dire che i miti e le mitologie che io presento nei miei libri sono quelli costruiti dalla gente per interpretare la realtà e descrivere il loro mondo. In questo senso, non sono veri, e tuttavia sono veri in senso psichico. Perciò, quando ricostruisco una mitologia, non descrivo una mitologia del passato, ma è qualcosa di nuovo che creo, vi ci porto dentro le esperienze di una chicana che costantemente attraversa mondi diversi, le esperienze comuni a tutti. Cerco di usare le vecchie figure culturali in maniera differente, e le rinomino. Ti ho parlato del mio modo particolare di procedere nella scrittura, il processo di mettere insieme un saggio e mettere insieme una fiction: chiamo quel processo "mettere insieme Coyolxauqui". Mi riferisco al mito azteco di Coyolxauqui, figlia di Coatlicue. Coatlicue aveva già 400 figli e una figlia, quando un giorno una penna cadde dal cielo, penetrò nel suo grembo, e lei rimase incinta. La figlia Coyolxauqui scoprì che sua madre era incinta, sebbene non ci fosse un padre, e ne fu molto turbata, e ne parlò ai fratelli, li organizzò e decisero di attaccare Coatlicue. Ma uno dei fratelli la tradì e andò dalla madre e le disse del complotto, e fu udito dal feto, Huitzilopochtli, il dio della guerra, il dio protettore degli Aztechi. Al momento dell’attacco, Huitzilopochtli fuoriuscì dal ventre della madre completamente armato, con uniforme da guerriero, e decapitò la sorella e la smembrò e ne disperse le membra. Coyolxauqui, che in seguito divenne una delle dee-luna, fu il primo sacrificio umano.
Questo mito è sullo smembramento, inscena quel che accade alla tua mente quando sperimenti un trauma: quando attraversi un trauma sei dissociata e cerchi di sopravvivere al cambiamento causato dal trauma. Se stai lavorando ad un testo, come quello su cui tu stai lavorando, come s’intitola? (Io: Cartografie letterarie), quando lo stai mettendo insieme e senti come se un capitolo non è ben collegato agli altri, devi far di tutto per mettere insieme il corpo del testo. Così, Coyolxauqui è diventata una mitologia con cui mi piace lavorare, il modello intorno a cui cerco di articolare il processo del mettere insieme un libro, un saggio, una storia, persino il processo del creare, facendo rientrare nella creazione il tuo mondo sociale, mettendo quel pezzo qui e quell’altro là, provando e riprovando finché il corpo testuale non "si fa" intorno a una certa realtà. È quello che faccio con queste figure mitologiche. Le ri-faccio in senso moderno, intorno alle lotte cui oggi è sottoposta la gente. Perciò, i lettori possono non conoscere la storia finché non gliela racconto, o finché non l’apprendono in altri modi. Ma poiché non parlo dei tempi pre-colombiani e di idee religiose, ma cerco soltanto di descrivere il mondo che essi abitano, i lettori colgono cosa significa. Poi qualcuno prende l’idea di Nepantla, per esempio, e crea qualcosa come MACLA (Mexican American Center of Latin Arts) che è un centro d’arte latina a San José. Quel qualcuno legge un saggio che io ho scritto tempo fa, intitolato Border Arte: Nepantla and the world of la frontera, che era sull’arte chicana, sull’arte latina, e decide di fondare un movimento artistico transculturale, in cui collaborano messicani da entrambi i lati della frontiera – Messico e Stati Uniti. Mi chiedono di scrivere la proposta: volevamo due messicani, due chicani, fra cui io stessa, e così creammo questo laboratorio dove discutevamo di attraversamento di frontiere e mestizaje, e di Nepantla, e di creatività e di Coyolxauqui el cenote, il mio simbolo per dire dell’inconscio creativo da cui la gente prende idee, memorie, immagini. Lavorammo per cinque settimane, poi facemmo dei laboratori con la gente della comunità, altri venivano a seguire dei seminari aperti, e poi ci fu la mostra che durò tre mesi, dove ognuno espose il proprio lavoro, anch’io esposi i miei disegni con i testi.
La gente della comunità veniva e osservava la nostra arte ed avevamo domande e risposte. È così che un’idea d’improvviso riceve delle risposte a partire da un input. La gente che veniva da Son José era gente normale, messicani americani o latini. Non sapevano chi era Coyolxauqui o Nepantla. Guardavano i testi, guardavano i dipinti e parlavano con noi e di colpo si ritrovavano con questo diverso vocabolario e con questa diversa considerazione delle loro vite, che risultavano in qualche modo come illuminate perché pensavano che qualcosa nell’arte parlava delle loro vite. E io allora ricevetti questa sensazione che non è l’arte che imita la vita, ma la vita che imita l’arte. Ti sembra che ciò abbia senso?

È molto interessante. Non è soltanto lo scrittore che viene modificato dalla propria scrittura, ma la gente, i lettori sentono che possono "essere scritti" attraverso un altro. Tu hai dato loro parola, hai costruito un mondo per loro, ma loro l’hanno riconosciuto come parte di se stessi. Probabilmente è questa la funzione dell’arte.

G.A.: Sì, l’arte ritorna alla comunità. E forse chi legge quell’opera, scriverà di questo. Sto cercando di comunicare questo ai bambini: ho scritto questo libro intitolato Prietita and the Ghost Woman, cioè Prietita e la Llorona. Nella cultura messicana si cresce con queste storie della donna piangente. I latini hanno la loro donna in lacrime; in Cile viene chiamata in modo diverso; c’è anche in Nigeria e in Sud Africa; in Irlanda è la Banshee. I ragazzini crescono con queste storie, ma negli Stati Uniti viene loro detto che è tutta supertizione – ogni cosa a scuola riguarda la cultura bianca. E ad un tratto la vedono come la Prietita, che è un nome con cui i ragazzini messicani, i ragazzini con la pelle scura vengono chiamati: Prieto/Prieta. E poi vedono la Llorona. E poi vedono se stessi in questo libro. È un’incredibile spinta verso l’alto in questo paese, dove ogni cosa su di noi, lo sai, è sempre stato inferiore. E dove cresci pensando in quel modo. Se sei un messicano di frontiera, nato a quella cultura, sei abituato; ma se sei dell’Ecuador, non pensi a te stesso come ad uno di colore finché non arrivi negli Stati Uniti. Solo allora realizzi che ci sono gerarchie che stabiliscono quali classi di persone sono valutate e quali no. I ragazzini chicani assimilano l’idea che essi sono inferiori – che la loro lingua è inferiore, ed il loro cibo è inferiore, e il loro aspetto è inferiore. La cosa è ancora più dura per le ragazzine: non solo si sentono inferiori per cultura e lingua, ma sono inferiori in quanto donne. Così, quando hai qualcosa di te che è affermata, che viene presentata…

Sì,i segni aiutano a riconoscersi, a rappresentarsi:avere accesso al simbolico è, in un certo modo, esistere.

G.A.: Sì, proprio così. Tutt’ad un tratto c’è un qualcosa di piccolo ma positivo che tu afferri, che ti fa pienamente umana, o meglio, che ti fa pensare che hai una possibilità di essere umana, proprio come qualsiasi altro. Sì: dici bene, i segni portano all’esistenza.

E ora una domanda sul linguaggio da te usato in Borderlands: gran parte del fascino della tua scrittura ha a che fare con l’intreccio linguistico di spagnolo e inglese. Premesso che fra l’italiano e lo spagnolo non c’è la stessa cesura che fra inglese e spagnolo, suggeriresti, per una traduzione italiana del testo, di lasciare le frasi o parole in spagnolo non tradotto, e di tradurre in italiano solo l’inglese? É mia impressione che quel che ti spinge a scrivere anche in spagnolo sia il pensiero di usare la lingua come "azione": nel mettere i parlanti inglesi di fronte al sentimento di estraneamento e dislocamento originati da una lingua straniera, li stai costringendo a sperimentare quel che normalmente i parlanti spagnoli provano in una cultura che ancora gioca a pensarsi essenzialmente inglese.
Volendo fortemente una traduzione italiana del tuo libro, mi sono detta che voglio che anche ai lettori italiani passi l’idea, e se traduciamo anche i brani in spagnolo, non coglieranno questo sentire-messaggio. Qual è il tuo suggerimento?


G.A.: Mi affido a quel che tu preferisci. Anch’io lascerei lo spagnolo così com’è, e poi magari lo tradurrei nei margini, o… penso che mi affiderò a quel che tu pensi sia il modo migliore per presentare lo stile di cui io faccio uso.

E anche rispetto ai miti: potremmo usare note, mi sono detta all’inizio, ma nel ri-leggere il testo, ho visto che non importa sapere la storia del mito originario, perché tu spieghi cosa intendi significare con quel mito. Ti si segue facilmente. Ma per la lingua, per la lingua potrebbe essere necessario avere note o una specie di glossario alla fine del libro. Ci sto ancora pensando, perché è importante lasciare lo spagnolo, perché si tratta di linguaggio-azione: dovete provare quel che noi proviamo, tu dici lì. E poi ci sono ragioni stilistiche: la tua lingua diventa emozionante, in spagnolo, sebbene non tutti i lettori italiani potranno seguirlo. Ma se traduciamo entrambe le lingue, allora qualcosa andrebbe sicuramente perso.

E poi sto elaborando, anche a proposito di altre scritture, delle idee sul mito. A volte penso che tutta questa insistenza della scrittura femminile sul mito vada ripensata. In fondo, i miti, così come ce li hanno consegnati, sono in ogni caso una costruzione patriarcale. Ma mi rendo conto che tu usi il mito differentemente, lo pieghi ai tuoi bisogni, lo ricrei.

G.A.: Non cerco solo di reinterpretare il mito. Tento di creare nuovi miti usando come prototipi i vecchi miti. Voglio dire che puoi prendere gli antichi miti per descriverli. O puoi interpretarli da una prospettiva femminista, di genere, o psicoanalitica o con l’ausilio di altre discipline. Oppure puoi creare miti usando alcune idee, alcuni concetti presenti nel vecchio mito, ma rifacendo il mito in modo nuovo, in realtà ricrei un nuovo mito. É come prendere i vestiti del vecchio mito e farli a pezzi, e sostituire quei vestiti con materiali differenti, cuciti insieme e messi su questo corpo che tu in qualche modo hai decostruito, smembrato, e poi rimesso insieme secondo un nuovo modello, così che non ci sia solo il corpo ricostruito da nuovo, ma anche il rivestimento: come funzionano le parole, il vocabolario – quello è il vestito; creare una nuova narrativa che è un nuovo mito. Un mito altro non è se non narrativa, racconto – può trattarsi di mito personale che la gente narra per spiegare il sistema di credenze nella propria cultura; o può trattarsi di un mito culturale attraverso cui le comunità dicono: la realtà è così. E sia i miti personali che i miti culturali sono diversi da quel che erano cinquecento anni fa perché li hai ricreati da capo.
Torno a dire: c’è differenza fra descrivere il mito, interpretarlo e crearne uno nuovo. E nel creare un nuovo mito ti allontani sempre più dal mito originario o dalla semplice descrizione del mito o dall’interpretazione. Mi accade così talvolta di pensare che sto interpretando il mito della Llorona da una prospettiva femminista, lesbica, letteraria, artistica; altre volte penso che sto creando la Llorona che non c’è mai stata prima – dipende dal progetto sul quale sto lavorando. Con Prietita and la Llorona quel che faccio è, prendere la vecchia Llorona e osservarla con occhi nuovi, reinterpretarla. Per quanto riguarda la Llorona che uso per teorizzare sulla creazione artistica, invece, penso che sto creando una nuova Llorona, un nuovo mito. Dipende da quanto significato creo – vale a dire dipende da se sto semplicemente descrivendo qualcosa, se non sto semplicemente riciclando un vecchio significato. Se invece stai reinterpretando qualcosa, prendi il vecchio significato e lo giri e rigiri, cambiandone la disposizione, guardandolo da altre prospettive. E se crei un nuovo significato c’è un elemento assolutamente nuovo che non era lì prima, che tu stai introducendo…A volte descrivo soltanto, a volte interpreto, altre volte creo. Richiede moltissima riflessione.

Ci sono dunque molti livelli. É un lavoro duro.

G.A.: Sì, molti livelli. Sono un po’ ossessionata, presa dal lavoro. Sono una scrittrice che lavora fino a ventiquattro ore al giorno. Il mio ciclo del sonno è diverso da quello normale. Io resto sveglia sei, sette, a volte 24 ore dopo che la gente va a dormire. Così vado a letto che è già il giorno successivo. Ma mi fa male agli occhi perché ho una retinopatia, conseguenza del diabete. Da quando mi sono sottoposta alla chirurgia lazer, a volte vedo doppio o vedo sfuocato. Quel che ora faccio è stampare quel che scrivo e fare le correzioni sul foglio, che poi vengono riportate al computer possibilmente da qualcun altro, per poter far riposare un po’ gli occhi. Ma ha i suoi vantaggi: in questo modo ho un’idea della disposizione spaziale della scrittura sulla pagina, come fosse già libro. E poi il processo di revisione viene un po’ rallentato, e questo aiuta a ripensare i simboli, i personaggi, le metafore, ecc. Questo metodo rallenta il lavoro, ma aiuta ad approfondirlo.

Passiamo quindi a guardare le opere sue più recenti, mi mostra anche degli studi su di lei, ma mi dice di non avere tutto quello che è stato scritto sul suo lavoro. Mi fornisce i dati della bibliotecaria di Santa Cruz che cura il suo file. M’invita a ritornarte per ri-incontrarci noi due, ma, mi dice, la prossima volta devi incontrare anche le altre scrittrici e studiose di Santa Cruz. Poi mi chiede se ho voglia d’accompagnarla nella passeggiata lungo il mare – deve camminare molto per contrastare gli effetti collaterali di un forte diabete: è un invito che protrae di altre due ore il nostro incontro. Preziose due ore. Preziose per l’incanto dell’oceano ricco di volatili e fauna marina. Preziose per le sue parole leggere e profonde sull’essere malata ed essere scrittrice – cosa la malattia porta o toglie alla scrittura. Ma, dice, se non fosse per la malattia, forse non mi godrei due volte al giorno questa visione e questo odore dell’Oceano in tutte le stagioni.




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