QUEL CHE C’E’ NEL MIO CUORE di Marcela Serrano

Feltrinelli, 2001

Camila, una reporter, cilena di nascita e da anni rifugiata negli Stati Uniti, ha appena perso il figlio. È disperata, in crisi con il marito e incapace di accettare l’aiuto della madre verso la quale nutre un devastante senso d’inferiorità. Malgrado la sua sofferenza, Camila accetta di fare un reportage in Messico. Giunge a San Cristóbal de las Casas, una sperduta cittadina i cui abitanti sostengono il mitico subcomandante Marcos. Qui incontra Reina Barcelona che, inconsapevolmente, riapre in lei antiche ferite poiché ha conosciuto sua madre nelle prigioni di Pinochet. Camila aveva cercato una precaria sicurezza nell’esilio, nel matrimonio e nella maternità; la madre invece era voluta restare in Cile a battersi contro il regime. Anche Reina è a fianco dei ribelli messicani. La vicenda di queste due donne coraggiose scuote Camila che, dopo alcune titubanze, si lascia coinvolgere nella lotta politica, anche per fare i conti con il passato e le proprie origini. E come le donne maya, alla fine, deve raccontare quel che c’è nel suo cuore: la storia di Reina Barcelona.

Nata a Santiago del Cile nel 1951, Marcela Serrano è una delle nuove voci della narrativa sudamericana. Con Feltrinelli ha pubblicato Noi che ci vogliamo così bene (1996), che ha vinto in Francia il premio Coté des Femmes, Il tempo di Blanca (1998), L’albergo delle donne tristi (1999), Antigua, vita mia (2000), Nostra Signora della Solitudine (2001) e Arrivederci piccole donne (2004).



Neruda non me ne voglia, ma certe volte sono stufa di essere donna. Quando ho partorito il mio unico figlio, ho ringraziato il cielo per il suo sesso: quanti problemi si sarebbe risparmiato per il solo fatto di nascere uomo!
È stato questo - l’essere donna – a infliggermi la peggiore delle sconfitte, quella che puoi subire soltanto quando una creatura è nata dal tuo corpo, dal tuo corpo di donna. Non sono una persona importante e la mia storia non ha niente di straordinario, è soltanto la storia di una giovane madre strappata a tale condizione. E questo fatto, sebbene anche il padre sia passato attraverso tutti i dolori possibili e immaginabili, ti rinchiude nella solitudine più totale: qualunque cosa accada, è una sensazione che non potrai mai condividere con nessuno. La paternità può essere un atto intellettuale: tu sei mio figlio perché i hanno raccontato che lo eri, non ti sei mai mosso nelle mie viscere, non ti ho mai sentito palpitare, e anche se i miei geni sono dentro di te, non sei nato carne della mia carne. Lo so che gli uomini del mondo intero mi odieranno per quanto sto per dire, ma alla mutilazione di un atto quasi intellettuale si può sopravvivere, a differenza della mutilazione di un atto violentemente carnale qual è il parto.

[…]

Fino a quel momento non mi ero resa conto di essere una donna convenzionale. Tutte noi, perché negarlo, nutriamo la segreta illusione di essere diverse. Crediamo che a guidarci non sia soltanto il risultato di quello che abbiamo respirato, di quello che abbiamo assorbito grazie a regole stabilite da altri, bensì una combinazione originale forgiata dalla nostra mente e dalla nostra volontà. Tutte noi ci saremo poste mille domande sul significato dello stare al mondo, e su qual è il mondo dove vogliamo stare, visto che le nozioni più elementari insegnano che se non ci piace quello che ci circonda possiamo reinventarlo, e quindi reinventarci. Ed è proprio tale reinvenzione - sebbene ci sia un prezzo da pagare – a situarti nel mondo e di fronte al mondo, da essa dipende la tua libertà con una madre come la mia, avrei potuto forgiarmi secondo canoni superiori alla media, e non l’ho fatto. Allora mi domando: il risultato sarebbe stato identico se fossi appartenuta all’altro sesso? Infatti alcune donne – tranne mia madre, naturalmente – sono vittime di qualcosa di terribile che impedisce loro la conquista del coraggio. Perché abbiamo tanta paura di quello che non è sicuro? Perché desideriamo navigare soltanto in acque calme e piatte? Che cosa ci hanno fatto al principio dei tempi per spingerci ad accumulare tanta paura? Intuisco che il mio timore è stato, da sempre, lo scatenarsi delle emozioni. In nome della convenzione, quindi, ho preso a forgiarle – le mie emozioni intendo – in un modo tale che inevitabilmente le andavo schiacciando, stritolando, il che significa confessare che stavo loro tarpando le ali. Probabilmente ho perso molto per strada per timore del rischio e di possibili dolori futuri, e sono sicura che a volte il presente mi è sfuggito di mano, per paura, e si è lasciato sedurre dal buonsenso, il peggiore di tutti i sensi, quello che banalizza tutto. Mi sono nascosta dietro le piccole vigliaccherie quotidiane, quelle che non escono allo scoperto, quelle che si vivono giorno dopo giorno senza clamore, per assicurarmi la tiepida certezza di camminare sempre lungo i binari del dovuto, evitando gli innumerevoli passi che comunemente vengono definiti inappropriati. Così mi attenevo a un’unica regola: la sicurezza. E la seguivo vivendo giorno per giorno, finché un colpo basso, ma davvero basso, mi ha scombussolata su tutta la linea. Come se invece di essere un quadro di Mondrian mi avessero costretto a trasformarmi in un quadro di Pollack.

[…]

Ci misi non più di dieci minuti a disfare i bagagli. Avevo seguito il suggerimento di viaggiare leggera, per cui nell’armadio avanzava un sacco di spazio dopo che vi ebbi sistemato i vestiti. Guardai dubbiosa il piccolo frigorifero vuoto, appoggiato sulla parete, in fondo alla camera, in mezzo ai mobili di legno che suggerivano l’idea di un salotto. Magari mi sarei comprata un po’ di frutta, mandarini o manghi, se era la stagione giusta. Dopo essermi rinfrescata mi guardai intorno: non riuscii a reprimere un sospiro di soddisfazione, favorito anche dai raggi di sole bianchi e caldi che invadevano la stanza. Per un attimo Washington mi parve appartenere a un’altra galassia. Esiste per una donna una sensazione più eccitante (e terrorizzante insieme, lo riconosco) del sentirsi fuori dalla portata degli altri, irraggiungibile per le persone vicine che, pur volendole bene, la soffocano senza quasi rendersene conto?

[…]
Ninoska mi sorrise come non potrebbe mai fare un uomo, come se le donne capissero tutto le une delle altre, dell’eternità. (Le uniche donne che possono contare su amiche autentiche sono quelle consapevoli del genere cui appartengono, l’avevo sentita dire un giorno, le altre rivaleggiano fra loro e si cavano gli occhi.)

This entry was posted on 3.11.2008 and is filed under . You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. You can leave a response.