La ballata amara di Santa Tejerina

Romina, 21 anni, vittima dell'Argentina anti-abortistaStuprata da un vicino, costretta a tacere la sua gravidanza per i condizionamenti della Chiesa, condannata per infanticidioRiccardo De GennaroLeón Gieco, un popolare cantautore di Santa Fe, città della pampa argentina, ha scritto una canzone per lei, come gli innamorati di una volta. «Santa Tejerina es la santa preferida de los que pidion perdón, vamos a bailar que ya yo te perdoné», la santa preferita di coloro che chiedono perdono, andiamo a ballare che io t'ho già perdonata, dice. Ma la storia di Romina Tejerina non è una storia romantica. È una storia di miseria, paura e prevaricazione, lo specchio di una società, quella argentina, che sacrifica ogni anno sull'altare anti-abortista migliaia di ragazze perlopiù minorenni: una parte muore in seguito ad aborto clandestino, un'altra viene gettata in carcere e deve vivere sotto il duplice peso di una sentenza giudiziaria e della condanna morale di una comunità condizionata dalla Chiesa. Romina Tejerina, 21 anni, un bel volto indio dagli occhi pieni di pianto, appartiene a un terzo gruppo. Deve scontare una pena di 14 anni per aver ucciso la sua bambina appena partorita nella vasca da bagno, dopo essere stata stuprata da un vicino di casa molto più anziano di lei. Emilio «Pocho» Vargas l'aveva aggredita per strada e costretta a salire sulla sua auto: qui l'aveva violentata, sicuro che - anche grazie al fratello poliziotto - l'avrebbe fatta franca. Era il primo agosto del 2002. Se in Argentina esistessero i consultori e l'aborto fosse legale, Romina Tejerina - che ai tempi dello stupro era minorenne - non sarebbe in galera e, due domeniche fa, non sarebbe stata necessaria la mobilitazione di 10mila donne a Jujuy, dove lei è nata e dove sconta la pena, per chiederne la scarcerazione.Dopo essere stata violentata, Romina aveva tentato di abortire clandestinamente. Non aveva denunciato lo stupro per paura e, successivamente, per la vergogna, non aveva detto della gravidanza né ai genitori, né alla sorella maggiore con la quale viveva. Poco prima della sentenza, nel giugno dell'anno scorso, Romina ha raccontato a una giornalista di Pagina 12, che il padre considerava le donne tutte puttane e che l'aveva avvertita: «Se rimarrai incinta mi farai morire d'infarto». Quando la incontrava, il suo violentatore la derideva, si burlava di lei. Infine la minacciava di uccidere suo padre se avesse parlato. «Non posso giustificare quello che ho fatto - ha raccontato Romina - ma ero disperata. Ho trascorso tutti quei mesi senza sapere che cosa fare». La tensione cresceva in lei, la paura di dover convivere tutta la vita con quel ricordo terribile l'ha fatta uscire di testa. Dopo aver partorito ha afferrato un coltello e, in un raptus di follia, ha colpito per 26 volte il corpicino della neonata. Al processo la difesa ha chiesto la perizia psichiatrica, ma il giudice Sarmann del tribunale di Jujuy ha respinto l'istanza. Ha preferito domandare ai testimoni dell'accusa se Romina beveva, come si vestiva, l'atteggiamento che teneva con i ragazzi, se aveva una relazione con il suo Vargas. Non deve stupire in una regione dove spesso padri e datori di lavoro applicano senza problemi il derecho de pernada, lo ius primae noctis, e non c'è vittima che si ribelli perché non serve a niente. L'unica «colpa» di Romina Tejerina, prima che il vicino di casa la stuprasse, era di andare a bere e ballare con gli amici, come tutte le ragazze. Il giudizio della societàBisogna pensare almeno per un attimo a quello che deve sopportare oggi dietro le sbarre: oltre alle durezze del carcere, il giudizio di una società oppressiva e arretrata, alla quale non importa la condizione sociale e la disperazione delle giovani che ogni giorno vengono stuprate e non sanno a chi chiedere aiuto. Romina è colpevole, forse era convinta che uccidendo il bambino avrebbe cancellato per sempre il trauma di quella notte. Non sapeva che la coscienza non funziona in questo modo e la giustizia funziona in modo sbagliato. Non hanno neppure creduto alla sua versione dei fatti: siccome i ripetuti tentativi di aborto avevano contribuito alla nascita prematura della bambina, il giudice ha deciso che non c'era stato stupro perché i tempi del concepimento e della violenza non coincidevano. Non si è nemmeno preoccupato di disporre il test del Dna, ma probabilmente oggi è ammirato per la sua magnanimità, se si tiene conto che la pubblica accusa, sostenuta da una donna, aveva chiesto l'ergastolo per omicidio aggravato e lui le ha inflitto solo 14 anni. Il violentatore, invece, è rimasto in carcere tre settimane, poi è uscito. Ora viene invitato dalle tv locali, dove annuncia: farò dire una messa per la piccola. Ma dopo la sentenza, il caso di Romina ha assunto un valore emblematico e nelle strade delle principali città, da Buenos Aires alla Patagonia, sono apparse scritte di solidarietà nei suoi confronti. Lei, a dire il vero, è sorpresa di essere diventata un simbolo per la liberazione della donna e la lotta per la legalizzazione dell'aborto. Nel solo carcere di San Salvador de Jujuy su 24 detenute tre sono dentro per infanticidio. Natalia, ad esempio, ha ucciso la sua bambina di cinque anni quando ha visto che il marito abusava di lei. Olga, invece, la migliore amica di Romina nel carcere, ha ammazzato con un colpo di pistola il padre, un poliziotto, che la violentava da quando aveva 16 anni. «Libertad por Tejerina, despenalización del aborto» hanno ribadito due domeniche fa quelle 10 mila donne in corteo per le strade di Jujuy, il capoluogo della regione argentina che confina con la Bolivia. La marcia rientrava nell'ambito dei tre giorni dell'Incontro nazionale della Donna, faticosamente organizzato tra le polemiche degli ambienti ecclesiastici e della comuntià locale. La scelta di Jujuy, d'altronde, non è stata casuale: nella regione muoiono 200 partorienti ogni 100mila, la maggioranza per procurato aborto. Le statistiche dicono che l'indice è pari a 2-3 volte quello delle altre regioni argentine e che si avvicina a quello dei Paesi più poveri dell'Africa.Come le tre scimmietteLa grande manifestazione di Jujuy si è svolta senza incidenti, nella massima tranquillità, ma la sua conclusione dice più di molti discorsi. A un certo punto, infatti, una parte del corteo si è diretta verso la cattedrale e l'ha trovata circondata da un centinaio di fedeli. Qui si è verificato un inedito scontro verbale: da un lato, le manifestanti gridavano slogan a sostegno dei diritti della donna e dell'aborto, dall'altro, i fedeli e le fedeli rispondevano a capo chino con il bisbiglìo delle loro preghiere. I due mondi, ora così vicini, non potevano essere più lontani.«No les miran, no les hablen, non respondan», non guardatele, non parlate, non rispondete, era la parola d'ordine fatta circolare tra i credenti, che - come le tre scimmiette - chiudevano occhi, orecchie e bocca davanti a un problema di incredibile gravità. Era come se quelle 10mila donne in corteo non esistessero, o che - come le Madres di plaza de Mayo quando nel '77 cominciarono a reclamare i figli desaparecidos - fossero tutte pazze.Le donne argentine oggi lottano per l'aborto e lo fanno non soltanto per affermare il diritto della donna di poter scegliere della propria vita e del proprio corpo, ma anche, più direttamente, per salvare migliaia di vite umane. Le cifre parlano chiaro: ogni anno in Argentina 360 donne muoiono a causa di aborti illegali, una al giorno. O per dirla con un altro dato: un terzo delle morti di donne rimaste incinta è provocato dagli aborti clandestini. Ma per la Chiesa, i medici, la magistratura questo non è un problema. Sembrano non accorgersene. È come se questi dati non li riguardassero e, dunque, non c'è da stupirsi se a finire in galera sono le ragazze che abortiscono illegalmente e se quel cantautore di Santa Fe è stato addirittura processato per la sua ballata.D'altronde basta ricordare che quando il governo Kirchner tentò un'iniziativa per la diffusione dei contraccettivi tra gli strati più poveri della popolazione l'Argentina rischiò l'incidente diplomatico con il Vaticano. Era il febbraio dell'anno scorso. Il vescovo militare Antonio Baseotto prese carta e penna e scrisse al ministro della Salute accusandolo di apologia di reato. Aggiunse che il ministro avrebbe meritato di essere «gettato in mare con una pietra di mulino al collo». Voleva essere una citazione evangelica, ma il riferimento ai «voli della morte» con i quali la giunta militare eliminava i desaparecidos era esplicito. A fronte della dura reazione del governo, Baseotto ottenne la solidarietà del Vaticano, attraverso una lettera inviatagli dall'allora vescovo e, tre settimane dopo, pontefice Joseph Ratzinger. Questi manifestava al «collega» argentino «un sentimento di particolare stima» e giudicava le sue allucinate parole «un intervento a favore della vita nascente e della dignità della sessualità umana». Evidentemente non di Romina, né di tutte le altre donne. Durante la cerimonia di investitura di Ratzinger a pontefice, Kirchner fu l'unico capo di stato che non avvicinò le labbra all'anello di Benedetto XVI

This entry was posted on 1.26.2008 and is filed under . You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0. You can leave a response.